Il papa della complessità

FONTE Facebook Pierluigi Fagan 25-4-25
TITOLO REDAZIONALE

SI POTREBBE TUTTI QUANTI ANDARE AL TUO FUNERALE…

(Passata la tempesta dei primi commenti me ne permetto uno anche io) Pierluigi Fagan

Franceso I era a capo di una comunità di credenti di circa 1,4 mld di persone. Distribuita nei vari paesi del mondo, anche quando non fa maggioranza assoluta lo è spesso relativa o è minoranza qualificata. Socialmente, culturalmente e quindi politicamente, ripartita per stati e società questa comunità pesa più della sua stretta numerica. In più, Francesco I veniva dal Sud America, guardava spesso all’Asia (e la Cina, vecchio pallino gesuita) e curava la penetrazione della sua Chiesa in Africa. In ottimi rapporti con l’area ortodossa, meno con la protestante (non tanto con gli anglicani ma con le sette americane), meno ancora con l’area ebraica, equilibrato nelle relazioni con l’islam a differenza del suo predecessore.
Insomma, possiamo pesare la sua influenza diretta e indiretta, come leader culturale di opinione, come influente per l’immagine di mondo, almeno al doppio della sua stretta area di credenza, il che ne ha fatto -sotto questo punto di vista- l’individuo più importante in senso globale e di gran lunga.
La maggioranza votante Bergoglio al Conclave condivideva se non altro l’idea generale che l’istituzione che dovrebbe curare ma anche espandere la credenza, dovendo guardare al presente ma anche il futuro del mondo, non poteva che constatare la contrazione di peso degli occidentali e l’espansione enorme dell’Africa ed il peso altrettanto enorme dell’Asia. Assieme al Sud America, queste tre aree pesano oggi l’85% del mondo, l’88% nel 2050. Non credo che queste considerazioni scompaiano come riferimento per l’elezione del successore, al di là del fatto che poi la “missione” può essere espletata in molti modi e diversi equilibri tra la cura dell’esterno e quella dell’intero della Chiesa, una vocazione “internazionalista” rimarrà base per la scelta del successore.
La struttura dell’opinione tra Bergoglio e la grande area di chi, direttamente o indirettamente, ha risentito della sua influenza culturale, è quindi immensa e variegata. Da cui la pluralità di giudizi, sentimenti, interpretazioni. Il primo discrimine che si può fare è tra chi è interno a quella credenza o altra credenza spirituale e chi no.
Molti laici, non credenti, agnostici o atei (categorie di malferma definizione visto che spesso sono state date dai credenti), hanno apprezzato il profilo culturale di Bergoglio. Ricordo che Bergoglio era gesuita, il primo papa gesuita (ordine nato nel 1540, da sempre discusso dentro la Chiesa), l’ordine la cui missione principale è proprio il ruolo di corpo diplomatico culturale rivolto al mondo non espressamente cattolico. Ma anche qua, se ne possono dire di tutti colori a seconda dell’ideologia professata o del peso che si dà a certe cose, dall’entusiasmo per il suo terzomondismo anticapitalista e tendenzialmente egalitario ed ecologista ai mal di pancia di chi ne ha censurato altri aspetti.
Dal mio punto di vista, di studioso delle immagini di mondo che si occupa più spesso della struttura del “come” pensiamo che non del “cosa” pensiamo, Bergoglio era un alleato per la promozione della cultura della complessità, il che -in assoluto ma di questi tempi in particolare- era ed è una rarità.
Poco dopo eletto. Bergoglio emanò una enciclica dal titolo “Laudato sii” che recensii sul mio blog (link nel primo commento, chi vuole può dargli almeno uno sguardo, vale la pena, non l’articolo ma il contenuto e la forma dell’enciclica). La definii una “enciclica della complessità” con un certo entusiasmo intellettuale. Ma al di là del trasporto emotivo di chi sa di essere minoranza e trova rispecchiamento in un nuovo “amico nel pensiero”, per altro così “importante”, direi che ai contenuti di quella enciclica Bergoglio ha poi dato seguito coerente.
Senza tediare con lunghi elenchi di citazioni, estrapolo solo due pezzi esemplificativi.
Il primo è quel “Qualcuno può dirmi: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sono soltanto contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi”. La battaglia tra semplificanti con tendenze manichee (manicheismo preistoria del cristianesimo stesso) e complessisti, con i primi al grido di “c’è un invasore e un invaso” come se la storia del caso iniziasse il 24 febbraio 2022, senza cause, senza grovigli di cose ignote ai più che si accorgono dei problemi del mondo solo quando esplodono in schizzi di pus, è poi andata avanti e continua sino ad oggi. Ma trattandosi di battaglie sul come pensiamo, è normale portino via aspre dialettiche, anche odii intellettuali profondi e soprattutto molto tempo. Provare a cambiare le forme del mentale porta via molto tempo. È anche una battaglia tra ignoranti emozionati (nel senso che ignorano la struttura dell’argomento su cui esprimono giudizi, a quel punto “giocoforza” emotivi) e osservatori razionali, vecchia quanto l’umanità e più spesso, specie in tempi storici tormentati, persa dai secondi.
Il secondo è quel “C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di “senso della complessità”. Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità” espresso in una lettera al direttore del Corsera di fine marzo. Che seguiva un esplicito invito rivolto ai formatori di opinione “Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani”.
A cui ha fatto seguito il discorso alla Via Crucis sul mondo sempre più “a pezzi”, un sistema umano sempre più fratturato che avrebbe bisogno di nuovi tessitori, rammendatori, cucitori. Tra culture, civiltà, stati, nazioni, dentro le nazioni tra strati sociali. Non solo per astratto sentimento di pace, fratellanza e giustizia, prima ancora per realistica presa d’atto che l’unica via che abbiamo è adattarsi reciprocamente e tutti gli umani al pianeta che ci ospita. Forse questo papa è stato il primo, vero, “mondologo”, chi assume l’intero mondo come oggetto del pensiero.
Be’ non c’è da meravigliarsi che un gesuita si esprima, pur con immediata semplicità linguistica, a tale livello proprio delle immagini di mondo. E tuttavia non si può non rimarcare la rarità di tale approccio.
Quindi, no, domani altri andranno al suo funerale, io posso solo dire che la sua dipartita mi dispiace intellettualmente ed umanamente molto.

Pierluigi Fagan, 25-4-25

REARM EUROPE-IO NON C’ERO

FONTE
Facebook. Pierluigi Fagan. 6-2-25
Vignetta di Altan scelta dall’autore
TITOLO REDAZIONALE

REARM EUROPE

Premessa: io non sono un pacifista. O meglio, lo sarei sul piano ideale, come condizione a cui tendere ma poiché sono realista (descrittivo) sono consapevole che la guerra fa parte del modo con cui alcune comunità umane organizzano la loro reciproca convivenza in spazi limitati, sicuramente da cinquemila anni, in alcuni casi anche da un po’ prima ma non tanto prima.
L’unica “prova” che abbiamo di un massacro organizzato tra gruppi umani nella storia profonda è di 11.000 anni fa, prima non ce ne sono e quindi l’assunzione che la guerra ovvero la violenza organizzata tra gruppi umani è consustanziale la nostra “natura” è falsa. Per altro, non si capisce cosa si intenda con “natura” quando si parla di gruppi umani, sistemi adattativi che hanno per forza mille modi per organizzarsi e vivere visto che abitano territori diversi, in tempi diversi. Lunga tutta la vasta e variegata storia umana del mondo, si rinvengono luoghi e lunghi tempi in cui non c’è stata alcuna guerra.
Fa eccezione un luogo: l’Europa. Senza alcuna apprezzabile eccezione, lo spazio europeo è da sempre sede di conflitto armato dal tempo dei Greci.
I popoli di questa area storica e geografica, dopo una lunga stagione di colonialismo e imperialismo in cui sono andati a saccheggiare e coartare quasi tutto il mondo, non negandosi il piacere di farsi guerra tra loro con estensioni variabili (dei Cent’Anni, dei Trent’anni, dei Sette anni) e ragioni plurali (religiose, civili, di indipendenza), nel solo ultimo secolo, hanno imbastito un bel massacro generalizzato. Una Prima guerra mondiale (35 milioni di morti), una Seconda guerra mondiale (65 milioni di morti), una Guerra fredda, una guerra jugoslava, varie guerre in giro qui e lì (dal Medio Oriente alle Falklands). Evitando il sanguinoso capitolo delle guerre degli europei oltremare ovvero gli “americani” o, meglio, “statunitensi”.
La storia, diceva Hegel, ci appare a tutta prima come un immenso mattatoio, in cui vengono incessantemente condotti al sacrificio individui, popoli, Stati e civiltà. Nulla sembra sottrarsi a questo destino di morte. Ma anche un superficiale esercizio di storia comparata, rileverà che la densità e intensità bellica europea non ha pari nel resto del mondo, ad esempio in Asia che è uno spazio di civiltà almeno altrettanto antico ed anche molto più popoloso. A parte le guerre esportate dall’Occidente (oltre alle “mondiali”, Coree, Vietnam etc.).
Ogni volta c’è un apparente “ottimo motivo”. La paura di un nemico immaginario, un ideale, una ragione intrascendibile, un “ha iniziato prima lui io mi stavo solo difendendo”. Ogni volta si è passati dal ritenere una guerra un male da fuggire e dopo poco tempo in cui mille voci si sormontano diventando sinistro coro inarrestabile, ai più è apparso ovvio riprendere le armi e andare ad ammazzarsi.
Negli intervalli tra un massacro e l’altro, si scrivono libri e si girano film che mostrano l’insensatezza della guerra, il dolore straziante, l’abisso di paura, il rimorso, il ripensamento “ma come è possibile che siamo finiti a fare questo casino?”. Ogni volta si inizia quasi per caso e si finisce a fare mattatoio. Se avessimo a che fare con un individuo è chiaro che al soggetto verrebbe diagnosticata una patologia grave e verrebbe internato.
Dalle centinaia di libri che ho comprato e debbo ancora leggere, ieri ho ripreso in mano il famoso “I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra” di C. Clark (Laterza), un grande classico tra i classici. In Introduzione, Clark confessa l’enorme difficoltà dello storico alle prese con decine e centinaia di volumi con i documenti più o meno ufficiali prodotti ex post dalle varie potenze (vincitori e vinti), le memorie smemorate e selettive dei grandi attori (leader, generali, funzionari) e ben 25.000 (!) libri di storici e analisti sul fatto, le sue cause apparenti, le sue cause reali sottostanti, dove “reali” sono tali definite variabilmente da studioso a studioso.
E dire che a farla facile, bastava dire che c’era un aggressore e un aggredito, come sempre del resto. Chissà perché ci ostiniamo a tenere aperti tribunali, a pagare giudici, funzionari, procuratori, periti, avvocati, esperti vari convocati a processo per istruire un giudizio penale anche quando oltre alla vittima c’è anche il carnefice. Se c’è la vittima e il carnefice perché non mettiamo un bell’algoritmo spara-sentenze che ratifica l’ovvio? Perché andiamo a cercare cause, motivazioni, radici, dinamiche del conflitto il cui esito è lampante? Chissà perché scriviamo 25.000 libri per capire come siamo finiti a fare una guerra “mondiale”, noi patria di Platone e Aristotele, del diritto, del Cristianesimo, di Cartesio, Kant, Hegel, Einstein ed altre vette di massima civilizzazione?
Mah, chissà chi lo sa?
Dal mio eremo sempre più distaccato dal mondo, invecchiando e combattendo sempre più con problemi di salute, osservo dietro una cataratta di perplessità, l’ennesimo crescere emotivo di voci di gente che aggiunge virgole ad un discorso pubblico che punta all’ineluttabilità, l’ennesima ineluttabilità, per cui dobbiamo riarmarci contro le evidenti insidie del mondo. Non sarei contrario in via di principio, ripeto, non sono un “pacifista senza se e senza ma” ci sono i se e i ma. Quello che non capisco è come si possa essere così immemori di una coazione a ripetere ormai millenaria senza che nessuno si domandi: come siamo finiti così per l’ennesima volta? Cosa non abbiamo fatto -prima-, cosa non abbiamo pensato -prima-?
Come può passare in tre anni un cosiddetto “statista” a esaltarsi per uno spazio comune da Lisbona a Vladivostok (Macron poco prima dell’inizio della guerra russo-ucraina intervista a Le Grand Continent rivista geopolitica francese) all’offrire il proprio “ombrello atomico” contro l’evidente pulsione invasiva dei russi che dopo tre anni controllano nulla più del territorio ucraino preso nel primo mese di guerra senza riuscire ad estenderlo. Come si fa a prendere sul serio gente così?
Così per l’ennesima volta, sonnambuli oggi pure col deambulatore visto che siamo sempre più anziani e non abbiamo neanche sufficienti figli da mandare al massacro in nome dell’ideale, della Patria, del Bene, del Buono e del Bello, di qualche nostro Dio o Ragione di civiltà, della “democrazia e libertà”, inventiamo un progetto “comunitario” che si intitola “Rearm Europe”.
Fatto da gente per la quale tre anni fa il Problema era in Green Deal per salvare i cuccioli di orso in precario equilibrio su una lastra di ghiaccio che hanno perso i genitori morti per fame dovuta ai cambiamenti climatici. Fatto da gente che due anni fa dragava sostanze pubbliche da investire per il futuro delle “Next Generation” ovvero i nostri figli. Gli stessi che oggi si svegliano e ci dicono che dobbiamo distogliere fondi di welfare per armarci anche se, mannaggia, non abbiamo abbastanza giovani da mandare al fronte per difende la nostra serena vecchiaia.
Sarebbe bello poter dire “io non c’ero”, ma onestamente questa volta non possiamo.

Pierluigi Fagan, 6-3-25